pugno chiuso

Sabato scorso è morto un mio zio, uno degli ultimi testimoni di quello che è stata l’esperienza dei campi di concentramento nazisti in giro per l’Europa.
Mio zio, l’8 Settembre 1943, si trovava con l’esercito italiano sbandato in Grecia.
Non accetta di entrare nelle fila fasciste e neanche nella resistenza greca, ma si fida dei tedeschi e di alcuni ufficiali italiani che gli promettono di riportarlo in Italia.
Lo caricano su un carro assieme ad altre centinaia di soldati e lo portano, non a casa, ma a lavorare per la Germania nazional-socialista, campo di concentramento e campo di lavoro.
Una storia, quella dei soldati italiani prigionieri nei campi di lavoro, che è poco conosciuta ma che ha coinvolto diverse decina di migliaia di ragazzi, sprovveduti, sfruttati e ammazzati.
Mio zio, sopravvissuto a tutto, dopo tre anni, torna a casa, in Calabria, con in corpo un sentimento di odio verso i tedeschi e verso i fascisti.
Era diventato antifascista e comunista per reazione, inizia a votare PCI.
Vivrà facendo il muratore, sofferenza che si somma a sofferenza.
Si sentiva un proletario anche se questa parola non l’ha mai usata.
Non conosceva Marx e neanche Bakunin, ma era comunista.
Non conosceva la storia, se non la sua.
Era comunista di riflesso, senza riflettere.
Un comunista d’istinto come lo erano tantissimi comunisti.
Mancava di consapevolezza ma era colmo di rabbia e confusione.

Ieri sono stato al suo funerale, tanti parenti calabresi, entità alienate, gli stessi ai quali mio zio ha sempre cercato di raccontare la sua terribile esperienza, ma che, probabilmente, ne avevano già abbastanza del proprio quotidiano miserevole per ascoltarlo seriamente.
Del fatto che fosse stato comunista non credo se lo ricordasse nessuno.
Io però me lo ricordavo, e nel momento in cui la bara è stata issata e lentamente sistemata dentro al loculo, ho deciso che lo dovevo salutare in una maniera adeguata, ma che forse neppure lui si sarebbe aspettato: alzare il braccio e chiudere il pugno.

la bilogia del quadrato

Ho appena finito di sistemare e autoprodurre un altro libretto:
Il butoh quadrato“.

Questo è l’intro.

Ci sono momenti della vita che riconosciamo come importanti.
Momenti nei quali qualcosa di insolito e inaspettato accade.
Momenti che ti segnano in senso positivo o negativo, o che non si sa in quale senso.In sostanza, sono i momenti, passati i quali ti senti diverso, se non proprio cambiato, diverso.
Tre, per adesso, sono i momenti più importanti della mia vita:
-la sberla, non meritata, ricevuta in terza elementare dal maestro fascista Belluati;
-il primo gol(di sinistro) mentre giocavo con la squadra pulcini del Ceriale;
-il laboratorio di Butoh oggetto di questo scritto.
Tutto quello che è successo tra e dopo questi momenti, è stato conseguente.

Il testo che avete tra le mani è un’alleggerimento, una elaborazione, della Tesi di laurea che ho discusso(si fa per dire) alla fine del mio triennio di studi al Dams di Imperia e che si intitolava “Buto(s). L’esperienza di Ryuzo Fukuhara”.
Ho cercato di ripulirla, togliere il più possibile i toni accademici propri di una tesi di laurea, ma ugualmente qualcosa è rimasto. Tappati il naso.
Ho eliminato completamente la terza parte della Tesi, cioè un’intervista, a mio parere molto interessante, a Ryuzo, perchè avrebbe reso lo scritto ridondante (ma la trovi qui).
Ho tolto anche tutta la parte in cui erano elencati, giorno dopo giorno, gli esercizi svolti perchè era noiosissima e volevo risparmiare carta e ho tolto anche l’elenco autocelebrativo delle mie performances.

Un consiglio: non provare a trovare un senso al titolo di questo libretto. Se lo trovi, bene, se non lo trovi, va bene lo stesso, non ti preoccupare.

Se vuoi la versione cartecea del libretto scrivimi:
buconero@autoproduzioni.net

non mi avranno mai

A pag.16 del “Buco quadrato”, un libretto che sta diventando ingombrante perchè devo farci i conti continuamente, scrivevo:

“Proseguendo, giorno dopo giorno, nel mio esperimento, ho realizzato che forse avrei dovuto rovesciare il rapporto di dipendenza uomo-lavoro: era il lavoro che avrebbe dovuto essere dipendente da me e non viceversa; in sostanza ho deciso che non sarei piú stato io a cercare il lavoro ma che sarebbe stato il lavoro che, eventualmente, se proprio avesse avuto bisogno di me, mi avrebbe cercato. Inoltre, ovviamente, dovevo mettermi nelle condizioni di rifiutarlo, perché spessissimo il lavoro fa male.
Quindi smisi di cercarlo. “

Ieri, incautamente, ho ignorato questa regola, ho tradito questo proposito, ho disatteso questa linea programmatica, ho trasgredito questa legge fondante della mia vita, e l’ho pagata.

Non sono in forma, vi confesso che sono proprio in crisi, non mi gira bene, mi va quasi tutto storto, ma è strano, sembra quasi che me le stia andando a cercare.
I sensi di colpa e la preoccupazione di non farcela mi fanno perdere lucidità e freddezza e, nonostante la sera prima il cielo fosse stellato e io riuscissi a comprendere l’insignificante presenza umana nell’universo, la mattina seguente, dopo 27 anni dall’ultima volta, sono lo stesso andato a cercarlo.
Il “lavoro”, che è suscettibile, e che ha sicuramente letto il mio libretto, si è vendicato.
È stata una debacle, le forche caudine, una vergogna, una gogna.
Non entro nei particolari, il lavoro che chiedevo non era dei più usuranti, non era un posto fisso, era molto creativo, sembrava proprio fatto per me: un artista del cazzo!
Giusto così.
La mia vita sperimentale sta finalmente giungendo a risposte definitive, quasi scientifiche: io non devo cercare lavoro!
Mai più il mondo del lavoro mi vedrà ai suoi piedi!
Non mi avranno mai!!!
Mai.

dare esempi: né positivi, né negativi

Da un paio di mesi non ho molto da dire al mondo, e allora mi sono rimesso a “danzare”.
Non mi salva, ma un poco mi aiuta.
Spaccio quello che faccio come “Danza Butoh”, ma non è che mi freghi molto come si chiami, anzi.

http://www.youtube.com/watch?v=DWHxtEY7WeE