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Anarchia, Fede e dipendenza dal Sistema

Parto da questa affermazione dolorosa:
“Chi più chi meno, per un motivo o per un altro, tutti ci siamo cagati addosso”.

Rivoluzionari, Anti di qua e Anti di là, inneggianti alla lotta armata in Rojava, desiderosi di un’idea esagerata di libertà, nel momento in cui i duri dovevano entrare in gioco, i duri si sono spaventati.
Detta così non sembrerebbe niente di grave, ci sta che si abbia paura in certe circostanze; come si dice… è umano.
Io però ci trovo almeno due cose molto gravi da sottolineare in questa reazione, sulle quali NON si può NON riflettere.
Due cose gravi che toccano due temi che gli attivisti (a questo punto diventati passivisti), né prima né adesso, vogliono toccare: uno è il nostro rapporto con la sofferenza, la malattia e la morte e l’altro, non meno importante, la nostra dipendenza dal Sistema, sia conscia che inconscia.
I due temi sono, in questo periodo, ovviamente estremamente connessi, perché ciò che ci ha spaventato ce l’ha raccontato l’odiato Potere con i SUOI Media, con la SUA Scienza e i SUOI Governi, come d’altra parte il Potere ha sempre fatto, raccontandoci anche altre emergenze: per esempio l’emergenza immigrazione, così come la crisi finanziaria, lo spauracchio Spread, ma anche l’abbattimento delle Torri gemelle, Bin Laden, la guerra in Iraq, etc. etc.

Parto dal secondo punto che mi viene più facile.
La nostra dipendenza dal pensiero dominante si è dimostrata 
inquietante.
Nonostante decenni di lotte, esperienze, studio della storia, manifestazioni, dichiarazioni di guerra, arresti e carcerazioni, nonostante sapessimo che il Potere si nutre e si regge sulla nostra paura e sulla nostra fiducia, non c’è stato niente da fare: ci siamo cascati come polli, gli abbiamo creduto…
Eppure lo abbiamo sempre saputo che tutte le Scienze e tutti gli aspetti del nostro vivere quotidiano, il mondo del lavoro, la scuola, la medicina, l’economia, tutto si è evoluto per essere sempre più funzionale al Sistema liberal capitalistico catto fascista che detiene le redini delle nostre vite.
Come possiamo credere alla Scienza, le cui scoperte sono state sempre legittimate e accettate sulla base di opportunità storiche, politiche e soprattutto economiche?
Siamo capaci solamente di chiedere più Medicina pubblica, più terapia intensiva, più ospedali, scavandoci la fossa, senza più mettere in discussione la Medicina per quello che è diventata: un’industria produttrice di malattia e malati.
Che non è interessata alla nostra salute.
Come fidarsi di questi virologi, infettivologi e burini vari?
Io proprio non vi capisco.
Stesso discorso potremmo farlo, e lo abbiamo sempre fatto, analizzando l’uso dei Media nella storia, da Goebbels in poi e del ruolo fantoccio del governo di turno che, come dice Habermas “mette in opera in maniera tecnocratica gli imperativi dei mercanti senza offrire praticamente nessuna resistenza”.
Per farla breve e tirare le somme di questa parte di pensieri agitati, questa emergenza psicopandemica ha svelato quanto dipendiamo da questa imposta ed illusoria vita, e quanto temiamo di trovarci senza.
Sintetizzando: abbiamo una paura fottuta della Libertà.
E aggiungo, anche se fosse stato vero quello che non si è dimostrato vero, mai e poi mai avremmo dovuto accettare di perdere la libertà di autodeterminarci, non avremmo mai dovuto accettare di essere reclusi, anche nel nome di una sicurezza sanitaria, come di qualunque sicurezza. Mai avremmo dovuto aiutare e avallare e giustificare le imposizioni del Potere.
E mai e poi mai con esso collaborare.
Con ciò non mi sogno di dire che saremmo dovuti andare in piazza per cercare di fare la rivoluzione – anche se, sai com’è, qualche pensiero lo avremmo anche potuto e dovuto fare, almeno qualche pensierino – in ogni caso, andare in piazza sarebbe stato molto probabilmente un suicidio, gli stessi cittadini ci avrebbero massacrati, ma non è questo il punto.
Quello che avremmo almeno dovuto fare è non perdere la brocca, rimanere lucidi, cercare i modi per continuare a vederci, a discutere ed anche progettare azioni. Questo mi sarei aspettato.
Qui dove abito io, tutti chiusi a casetta, mascherinati, allineati e collaborativi.
E guai a chi la pensa un cicinino fuori dal coro. 
Fanculo.

Apro una parentesi.
Pensa che nella cittadina in cui abito, lo scorso inverno ho partecipato ad incontri trasversali per cercare di organizzare una fiera del libro antagonista. Si sarebbe dovuta fare nella primavera scorsa e poi ovviamente saltata, e sai quale era il tema scelto?
La catastrofe.
Cavolo.
Era o non era nell’aria qualcosa di grosso?
Un periodo di crisi lo abbiamo sempre desiderato, chiamato a gran voce da decenni.
Pensavo che il rivoluzionario con la crisi sarebbe dovuto andarci a nozze.
Non era così.
Chiusa parentesi.

Ma le motivazioni di questa nostra reazione vanno ancora oltre la dipendenza e la creduloneria. Vanno a toccare corde ancora più nel profondo del nostro essere uomini e donne.

Devo parlare di morte, di sofferenza e di dolore.
Sono temi enormi che tirano in ballo aspetti molto personali, troppo personali e mistici per Antagonisti di tutto.
Il movimento si è mai chiesto cos’è la malattia?
Si è mai chiesto come confrontarsi con il dolore e la sofferenza?
Si è mai interrogato sul senso della vita e della morte?
No.

Abbiamo sempre frainteso la malattia, abbiamo sempre evitato di parlare di sofferenza e dolore, demonizzato la morte.
Al più abbiamo cercato di esorcizzare scaramanticamente questi temi, abbiamo riso con i Monthy Pyton, ma non li abbiamo compresi, studiati e tantomeno accettati (mi riferisco a questi temi, non ai Monthy Pyton).

Adesso mi tocca bestemmiare.
Ci manca la FEDE.
Sgomberiamo il campo da interpretazioni religiose, cattoliche sul significato di Fede, che vedo già che vi prude il culo.
Parlo di Fede nel significato più libero e anarchico possibile. Fede come fiducia. Non in un Dio, ma come fiducia in noi stessi, nel nostro istinto, nell’umanità, Fede nella Vita.
Se ci pensiamo bene, gli anarchici sono gli unici che hanno veramente Fede.
I cattolici ci fanno un baffo.
Gli anarchici, che si professano Libertari, sono gli unici che non vogliono il carcere, la polizia, lo Stato (ci sono quelli che addirittura non vogliono neppure la Civiltà).
Cos’è questa, se non Fede!
Gli anarchici sono gli UNICI che rischierebbero di stare dentro una società autogestita, nella libertà; sono gli unici che in definitiva hanno Fede nell’Uomo.
Questo è quello che gli anarchici mi hanno sempre insegnato e che mi ha sempre affascinato.
Hai capito quanto, quello che è successo, mi ha sconvolto?
Quello che dico, è bollabile come negazionista? Complottista?

Ovviamente per me nulla sarà come prima.
Questo è un punto simbolico di rottura.
E non solo simbolico.

Ma di cose da dire riguardo l’accaduto e l’accadente ce n’è una montagna. Ho solo sfiorato il dicibile.
Se andiamo a vedere, si potrebbe contestare tutto, anche scientificamente, tutto quello che ci hanno raccontato:
gravità della malattia, morti, infettati, contagiosità, immagini televisive, dichiarazioni terroristiche e infami, deliri di onnipotenza, utilità della reclusione, dei vaccini……
Ma è solo dalla presa di distanza dall’illusoria realtà che ci fanno credere, che si potrebbe cominciare a cercare la verità di quel che sta succedendo.
Probabilmente, però, questo è fastidioso, potremmo scoprire di essere stati fregati.

Quando non avevamo paura del Virus….

A proposito di contagi e presagi, quand’ero circa a vent’anni, andavo, spesso col mio amico l’Egregio, al Virus di Piazza Bonomelli a Milano.
Un nome, un programma.

Cos’era il Virus?
Il Virus era un postaccio brutto: nessuna attenzione estetica, cicche senza filtro per terra, frequentato da giovani contagiosi, nel quale si assisteva a scene raccapriccianti come persone che volavano e si schiantavano al suolo, nel quale ci stavano fessure nei muri attraverso cui non si aveva il coraggio di guardare e odore fastidioso di vomito, sudore e birra della più scrausa.
Il Virus, più che un luogo, era un contenitore. Un container.

Dai Vito, mettiti il bandana!” mi disse l’Egregio.

Ancora pivellino, nonostante i miei vent’anni e rotti, tolsi dal polso tremante dove lo tenevo arrotolato, un pezzo di stoffa fatto di una vecchia camicia a quadrettoni e me lo misi in testa, alla maniera dei chicos di stanza tra Los Angeles e Tijuana. Messo proprio sulla fronte, che scendesse appena sotto le sopracciglia, che, per vedere dove mettevo i piedi, dovevo per forza alzare il mento e abbassar lo sguardo.
Questo modo d’essere bendato, che mi conferiva un’aria bellicosa, mi dava la forza di entrare in quel posto malfamato per i milanesi.
Ma i milanesi non capiscono un cazzo, si sa.
Mettermi quella straccio in testa era un gesto rituale, come andare in giro con una camicia legata per le maniche alla vita e che toccava quasi a terra. Era un modo per comunicare: “Ehi ragazzi, fatemi entrare, ci sono anche io!” e per sentirsi disperatamente parte di qualcosa.

Per dei provinciali come me e l’Egregio, il Virus era tanta roba.
Ci muovevamo al suo interno come quando cammini in un posto pieno di tagliole, ma lo stesso desideravamo ci fosse un Virus anche a casa nostra, ad infettarci, perché sognavamo di volare anche noi.
Dentro il Virus ci aspettavano Ubi, Bibo, Udo e Pici.
C’era anche Ben, un tipo che faceva i peggiori murales del mondo, ma glielo perdonavamo e c’era anche Bleck che faceva salti mortali e si lanciava dalle finestre senza farsi male e che adesso abita qui in valle. Giuro.
Un giorno ci suonavano gli Infezione, che al Virus erano di casa, in un’altra i Contrazione, in un’altra ancora i Disperazione o i Negazione, o gli Alterazione.
Al Virus finiva tutto in zione.
Si faceva controinformazione, colazione e si organizzava la manifestazione.
Prima di andare al Virus, era nostro solito fare un salto in Via Torino.
Orizzontarci a Milano, per noi che venivamo dal culo del mondo, era problematico, ma trovare Via Torino era relativamente facile perché vicina a piazza Duomo, e trovare piazza Duomo, per dei provincialotti, era ancora impresa possibile.
In Via Torino, ci andavamo, oltre che per cercare vestiti usati neri, soprattutto per comprare, ogni volta, un chiletto di vinile da un tipo che vendeva in un vicolo cieco, senza avere capacità imprenditoriali, dischi e riviste aperiodiche dai titoli non tranquillizzanti, come per esempio “Teste vuote ossa rotte”, senza neppure guardarti in faccia e senza far scontrini.
Nel suo buco di negozio la Siae era il demonio.
Il tipo che vendeva vinili e che sembrava non gliene fregasse un cazzo, lasciava tutto il giorno sul piatto, in loop, un LP di un complesso che se fosse stato italiano si sarebbe chiamato “Bandiera nera”.

Al Virus ci si salutava dandosi la mano, ma prima di darsela, ognuno sputava nella propria.
Altro che assembramenti, al Virus si facevan mucchi umani, mentre qualcuno urlava: ”Massacriamoci!”.
Entrati dentro il Virus – si pagava anche, spicci ovviamente – ci si ambientava un po’: si guardava quello o quella senza farsi sgammare, si faceva amicizia con i mostri che avevi dentro, si leggevano i muri e si beveva birre scrause in compagnia.
Non posso dire che al Virus si passasse il tempo a girarsi i pollici, in attesa di qualcosa, perchè nel Virus il tempo non passava, poteva sempre essere l’alba o mezzogiorno, potevi avere sempre fame o sonno, potevi sempre vedere qualcuno barcollar dalla stanchezza o qualcun altro che si faceva du spaghi, o anche solo uno.
E il sole, stanne certo, dentro al Virus non ci entrava.
Neppure a Luglio.
A parte questo, diciamo che quei giorni, non so dire se fosse sera, notte o pomeriggio, apparentemente non accadeva niente di fondamentale per l’evoluzione dell’umanità, ma non accadeva al Virus e questo faceva la differenza.
Dopo qualche ora uscivamo che ancora c’era luce. Come quando, anni addietro, si usciva dal cinema parrocchiale.
Mi toglievo il bandana a quadrettoni, salivamo sulla bianchina color verde pisello e ce ne tornavamo al paesello. Belli belli. Le batterie ricaricate per almeno un mese.

Quando andavamo al Virus io e l’Egregio, non lo potevamo raccontare alla famiglia e neppure dove lavoravamo. Ce lo tenevamo per noi. Perché, se lo avessimo detto in giro, ci avrebbero fatto il tampone e messo in quarantena.
E allora zitti.
Erano segreti che si custodiva gelosamente.
E qualcuno lo abbiamo anche contagiato.

L’attivismo politico è morto.

Non sono mai stato un militante modello.
Non sono stato un rivoluzionario dei più coraggiosi. Lo ammetto.
Alle manifestazioni ho sempre cercato di evitare di trovarmi dentro scontri.
Non amo la violenza, astrologicamente sono terra terra.
Sono carente di fuoco. Non m’infiammo con facilità.
Non odio abbastanza.
Nonostante questo, ho dato il mio piccolo contributo.
Spesso solo numerico.
Di questi tempi, dopo quello che ho visto e, soprattutto sentito, durante questo periodo di psico emergenza, ho preso coscienza che la lotta politica per quello che è stata fino a oggi, non mi interessa più.
Serve un salto di coscienza e sento il bisogno di una riflessione collettiva che porti ad una svolta, un’evoluzione.
Non siamo più credibili.

Questo è un periodo rivoluzionario. E non ce ne siamo accorti.

Prima che scoppiasse tutto, qui nella mia cittadina, stavamo cercando di organizzare, un festival letterario, una fiera del libro libertaria, antagonista, un momento di discussione e riflessione.
Sapete quale era stato il tema scelto? La catastrofe.
Ci avevamo azzeccato, tutto era nell’aria.
A Gennaio, discutendo del più e del meno con compagni e compagne, mi scappò di dire che stavamo vivendo un periodo pre-rivoluzionario.
Sembrava un’esagerazione, era invece una considerazione azzeccata.
Ci avevo visto giusto.
Perchè questo è quello che stiamo vivendo adesso, un momento storico di crisi del sistema.
Io, scemo, credevo che tutti fossimo sempre in attesa di una crisi, che una crisi fosse necessaria, che non ci dovesse spaventare, e adesso che eccola arrivata, non siamo stati capaci neppure di riconoscerla.
A questo punto non c’è più niente da fare.
Non mi aspetto più niente dal mondo della politica, dall’attivismo, dagli antagonisti.
Tabula rasa.
Mi ritiro nella mia piccola comunità. E mi metto in ascolto.
Aspetto un miracolo.
Che arriverà.