cose da dire (2)

Seconda puntata.
Ho fatto mille esperienze per cercare testardamente il modo di esprimermi, specialmente in ambiti che definiamo artistici, ma anche in altri contesti.
Verso la metà degli anni 80, sono entrato in contatto con la musica e l’editoria autoprodotte e poi con i posti occupati. Mi piaceva un botto, mi sentivo a mio agio, ne ero entusiasta, ma cambiare il mondo, no, non mi interessava veramente. Adesso posso dire, più modestamente, che io volevo solamente essere il mondo che avevo dentro, dargli spazio, e stare con persone che mi capivano, che non dovevo spiegargli tutto.
Questo è quello che volevo.
Verso la fine degli ottanta sono stato assorbito da movimenti che volevano la trasformazione della società, che volevano un certo tipo di trasformazione. Forze che apparentemente avevano le idee chiare. Con queste forze ci ho fatto i conti per tanti anni. Forze, più o meno forti, con le quali ho trattato, collaborato. E per anni mi sono convinto di voler anche io una trasformazione sociale. Andare all’assalto del Sistema.
Doveva andare così.
Ma non sono mai stato un militante, un soldato al servizio di un ideale. Avevo ed ho i miei ideali, ma non ho mai creduto di dovermi sacrificare perché diventassero quelli della maggioranza delle persone. Non sono mai stato portato alla propaganda e alle strategie di comunicazione atte a convincere gli altri.
Quando l’ho fatto, quando ho provato a farlo, sentivo, anzi avevo il sentore, di non essere nel mio, di uscire dalla mia strada. La mia strada è sempre stata quella che mi portava ad esprimere me stesso: sui palchi, in strada, nelle sale prove.
E’ sempre stata la mia inconsapevole e buona ossessione.
Dalla musica e le fanzines, sono passato ai libri, al teatro, poi alla danza, all’improvvisazione corporea, sfiorando la scrittura. Quello che ho fatto artisticamente l’ho sempre messo a disposizione di un ideale, di una lotta. E’ stato usato. Anche non capito. Ma, ripeto, non era esattamente quello ciò che mi interessava. Non erano le lotte il mio fine. Il mio fine era l’espressione in sé.
Per quello che non ho mai venduto volentieri la mia espressione: era un regalo, prima di tutto a me stesso.
Adesso posso dire che la mia espressività, ovviamente, era anche un mezzo.
Era il mezzo attraverso il quale ho cercato di conoscermi.
Conoscere il vero me stesso. Quello che sta sotto la maschera. Un mezzo per andare oltre, in altre dimensioni, luoghi dove il vero me stesso ci vive beato, luoghi senza tempo e senza spazio.
Per quello che spesso quello che ho fatto, per molti, sfiorava l’incomprensibile…
(continua)