A proposito di contagi e presagi, quand’ero circa a vent’anni, andavo, spesso col mio amico l’Egregio, al Virus di Piazza Bonomelli a Milano.
Un nome, un programma.
Cos’era il Virus?
Il Virus era un postaccio brutto: nessuna attenzione estetica, cicche senza filtro per terra, frequentato da giovani contagiosi, nel quale si assisteva a scene raccapriccianti come persone che volavano e si schiantavano al suolo, nel quale ci stavano fessure nei muri attraverso cui non si aveva il coraggio di guardare e odore fastidioso di vomito, sudore e birra della più scrausa.
Il Virus, più che un luogo, era un contenitore. Un container.
“Dai Vito, mettiti il bandana!” mi disse l’Egregio.
Ancora pivellino, nonostante i miei vent’anni e rotti, tolsi dal polso tremante dove lo tenevo arrotolato, un pezzo di stoffa fatto di una vecchia camicia a quadrettoni e me lo misi in testa, alla maniera dei chicos di stanza tra Los Angeles e Tijuana. Messo proprio sulla fronte, che scendesse appena sotto le sopracciglia, che, per vedere dove mettevo i piedi, dovevo per forza alzare il mento e abbassar lo sguardo.
Questo modo d’essere bendato, che mi conferiva un’aria bellicosa, mi dava la forza di entrare in quel posto malfamato per i milanesi.
Ma i milanesi non capiscono un cazzo, si sa.
Mettermi quella straccio in testa era un gesto rituale, come andare in giro con una camicia legata per le maniche alla vita e che toccava quasi a terra. Era un modo per comunicare: “Ehi ragazzi, fatemi entrare, ci sono anche io!” e per sentirsi disperatamente parte di qualcosa.
Per dei provinciali come me e l’Egregio, il Virus era tanta roba.
Ci muovevamo al suo interno come quando cammini in un posto pieno di tagliole, ma lo stesso desideravamo ci fosse un Virus anche a casa nostra, ad infettarci, perché sognavamo di volare anche noi.
Dentro il Virus ci aspettavano Ubi, Bibo, Udo e Pici.
C’era anche Ben, un tipo che faceva i peggiori murales del mondo, ma glielo perdonavamo e c’era anche Bleck che faceva salti mortali e si lanciava dalle finestre senza farsi male e che adesso abita qui in valle. Giuro.
Un giorno ci suonavano gli Infezione, che al Virus erano di casa, in un’altra i Contrazione, in un’altra ancora i Disperazione o i Negazione, o gli Alterazione.
Al Virus finiva tutto in zione.
Si faceva controinformazione, colazione e si organizzava la manifestazione.
Prima di andare al Virus, era nostro solito fare un salto in Via Torino.
Orizzontarci a Milano, per noi che venivamo dal culo del mondo, era problematico, ma trovare Via Torino era relativamente facile perché vicina a piazza Duomo, e trovare piazza Duomo, per dei provincialotti, era ancora impresa possibile.
In Via Torino, ci andavamo, oltre che per cercare vestiti usati neri, soprattutto per comprare, ogni volta, un chiletto di vinile da un tipo che vendeva in un vicolo cieco, senza avere capacità imprenditoriali, dischi e riviste aperiodiche dai titoli non tranquillizzanti, come per esempio “Teste vuote ossa rotte”, senza neppure guardarti in faccia e senza far scontrini.
Nel suo buco di negozio la Siae era il demonio.
Il tipo che vendeva vinili e che sembrava non gliene fregasse un cazzo, lasciava tutto il giorno sul piatto, in loop, un LP di un complesso che se fosse stato italiano si sarebbe chiamato “Bandiera nera”.
Al Virus ci si salutava dandosi la mano, ma prima di darsela, ognuno sputava nella propria.
Altro che assembramenti, al Virus si facevan mucchi umani, mentre qualcuno urlava: ”Massacriamoci!”.
Entrati dentro il Virus – si pagava anche, spicci ovviamente – ci si ambientava un po’: si guardava quello o quella senza farsi sgammare, si faceva amicizia con i mostri che avevi dentro, si leggevano i muri e si beveva birre scrause in compagnia.
Non posso dire che al Virus si passasse il tempo a girarsi i pollici, in attesa di qualcosa, perchè nel Virus il tempo non passava, poteva sempre essere l’alba o mezzogiorno, potevi avere sempre fame o sonno, potevi sempre vedere qualcuno barcollar dalla stanchezza o qualcun altro che si faceva du spaghi, o anche solo uno.
E il sole, stanne certo, dentro al Virus non ci entrava.
Neppure a Luglio.
A parte questo, diciamo che quei giorni, non so dire se fosse sera, notte o pomeriggio, apparentemente non accadeva niente di fondamentale per l’evoluzione dell’umanità, ma non accadeva al Virus e questo faceva la differenza.
Dopo qualche ora uscivamo che ancora c’era luce. Come quando, anni addietro, si usciva dal cinema parrocchiale.
Mi toglievo il bandana a quadrettoni, salivamo sulla bianchina color verde pisello e ce ne tornavamo al paesello. Belli belli. Le batterie ricaricate per almeno un mese.
Quando andavamo al Virus io e l’Egregio, non lo potevamo raccontare alla famiglia e neppure dove lavoravamo. Ce lo tenevamo per noi. Perché, se lo avessimo detto in giro, ci avrebbero fatto il tampone e messo in quarantena.
E allora zitti.
Erano segreti che si custodiva gelosamente.
E qualcuno lo abbiamo anche contagiato.