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fuck pension

Stavo pensando che io la pensione non ce l’avrò.
Non so se mi daranno una pensione sociale.
Non so se, a prescindere, mi spetterá qualche elemosina dallo Stato.
Spero di no.
In ogni caso, se mai sarò costretto a chiederla, o saranno costretti a darmela, sarà una pensione ridicola.
Quindi, visto che da vecchio dovrò continuare a fare la vita che faccio adesso, cioè dovrò occuparmi del mio sostentamento fino alla fine dei miei giorni, ne conviene che posso tranquillamente, già da oggi, considerarmi un pensionato, cioè un pensionato senza pensione.
Interessante.
Quando lavoravo in Ferrovia(con la “f” maiuscola) mi ricordo che qualcuno mi raccontò di un collega, morto, forse di infarto, il giorno dopo essere andato in pensione, ma a parte questo caso limite, ho visto moltissimi ex-colleghi posticipare più possibile il giorno del loro pensionamento per il timore di non sapere come affrontare la nuova vita, per la paura di non reggere psicologicamente al cambiamento, per il terrore di sentirsi inutili, per la paranoia di non saper come occupare il proprio tempo.
Questi problemi non dovrei averceli perchè non sto aspettando il giorno in cui smetterò di lavorare, non sto aspettando l’agognato riposo, non sto aspettando nulla, insomma, continuerò a vivere fino al giorno in cui morirò.

di orto in orto cosa mi porto?

Una vita precaria non può che avere un orto precario.
In quindici anni di pseudo produzioni agricole, mi accingo al trasloco nel mio settimo orto. È un modo di essere coltivatori che si avvicina alla condizione di cacciatore raccoglitore e al nomadismo, nonostante che da quasi tredici anni non cambio casa. Troppo?
Variegate sono le motivazioni che mi hanno obbligato a girovagare da terra a terra, da fascia a fascia: tre volte si è incrinato il rapporto con il proprietario del terreno, due volte ho lasciato l’orto perchè ne ho trovato un altro più vicino casa, una volta mi hanno tolto l’acqua per invidia.
L’agricoltura ha bisogno di stanzialità e quindi da un punto di vista produttivistico questi traslochi non rendono, ma, ovviamente, ci sono anche aspetti positivi: sto conoscendo diverse tipologie di terreno e di piante selvatiche, di diversi microclimi, mi sto facendo una discreta esperienza di veloce costruttore di orti e sto conoscendo sempre più l’animo umano, compreso il mio.
Se guardo al mio passato di orticoltore direi che ne ho fatte parecchie di cazzate, romantiche cazzate.
Mi ricordo adesso mentre scrivo che una volta sistemai un orto in un posto stupendo, vicino ad un torrente in collina, lontano da tutto, facevo ogni volta una dozzina di km per andarci, dodici per andare e dodici per tornare, alla faccia dell’economia, una follia. Per fortuna la compagna del figlio della proprietaria, che aveva progetti per quel posto, infastidita dalla mia passionalità, mi fece capire che era meglio che le lasciassi campo libero.Bastò uno sguardo.Meglio così.
Forse chi più soffre di questa precarietà sono alcune piante che mi dispiace abbandonare al loro destino e che mi porto dietro in ogni trasloco: salvie, maggiorane, fiori. Alcune si lamentano perchè avevano trovato il loro habitat ideale, ma è anche probabile che a loro non freghi niente.
Gli alberi da frutto sono il più grande problema perchè non posso sdradicarli e portartermeli dietro.
Non so se invidiare chi ha una campagna propria da una vita e per una vita. Si, da una parte può fare cose che io me le sogno, ma dall’altra forse si annoia, a vedere sempre lo stesso panorama.
Ma esistono ancora agricoltori che lo fanno per tutta la vita? Spero di no, non credo si possa fare lo stesso lavoro per più di tre anni di fila, non credo che l’uomo(e la donna) siano fatti per la stanzialità, e meno che mai lavorativa. Fare lo stesso lavoro tutta la vita è veramente triste, una violenza alla propria intelligenza e alla propria creatività. Certo che anche cambiare spesso lavoro, alla fine è come se si continuasse a farne solo uno. E non si tratta di distinguere tra lavori di merda e lavori di cacca, me ne frego, qui si tratta della nostra voglia di vivere tutta l’esistenza che è accantonata. Quindi? E che ne so! Adesso sono contento di ricominciare con un altro orto (ogni volta penso che stavolta sarà finalmente un successo), ma anche un po’ triste di lasciarne un altro, ma sono più contento che triste.

il fuggitivo

Mi sento un fuggiasco, ossessionato dal dovermi continuamente nascondere.
Solitamente vivo al 20%, inespresso.
Quello che sono veramente me lo devo tenere per me, e le poche volte in cui mi sono lasciato andare, completamente scoperto, sono stati casini.
Sono i momenti in cui me ne frego delle conseguenze e dico la mia opinione nella maniera meno dialettica possibile, meno filtrata dalle buone maniere, attimi in cui agisco come se fossi da solo sulla Terra, l’unico abitante, libero, senza doverne rendere conto a nessuno.

bibliografia del buco quadrato

Ho cominciato a leggere sul serio molto tardi, verso i 30 anni, colpa del fatto che prima non riuscivo a stare fermo. Stare seduto con un libro o con una penna in mano era una faticaccia, troppe cose da fare, come per esempio buttarmi giù da un palco o zigzagare su uno skate per le lisce vie della mia pseudo cittadina.
Leggere e scrivere non sono attività salutari: stare fermi, in posizioni non naturali, con lo sguardo incollato ad uno schermo, con le gambe incrociate e le braccia rigide. Anche per questo non leggevo molto.
Unici momenti in cui mi sentivo autorizzato a leggere erano i frequenti viaggi in treno, ma altrimenti mi lasciavo sopraffare dal movimento.
Comunque sia, quello sotto è un elenco molto selezionato di titoli che mi hanno segnato, che mi hanno formato, che mi hanno cambiato e che continuano a stare con me.

In ordine alfabetico:

-Autori vari: “Anarres” tutti i numeri della rivista libertaria edita alla fine degli anni 80;
-Giorgio Antonucci: “Il pregiudizio psichiatrico” (Eleuthera);
-Bob Black: “L’abolizione del lavoro” (Nautilus);
-Giuseppe Bucalo: “Dietro ogni scemo c’è un villaggio” (Sicilia punto L
edizioni);
-Pippo Carrubba: “Il posto fisso” (L’alternativa);
-Masanobu Fukuoka: “La rivoluzione del filo di paglia” (Libreria Editrice
Fiorentina);
-Ursula Le Guin: “I reietti dell’altro pianeta” (Nord edizioni);
-Errico Malatesta: tutto;
-Enrico Manicardi: “Liberi dalla civiltà” (Mimesis edizioni);
-José Peirats: “La CNT nella rivoluzione spagnola” quattro volumi (Edizioni Antistato);
-Marge Pierce: “Sul filo del tempo” (Eleuthera);
-Peter Singer: “Liberazione animale” (Lega anti vivisezione);
-Tuiavii di Tiavea: “Papalagi” (Stampa alternativa);
-Cristina Valenti(a cura di): “Conversazioni con Judith Malina” (Eleuthera).
-Nanni Balestrini: “Vogliamo tutto” (Feltrinelli)

Sono tutti titoli presenti nella biblioteca popolare nomade.