Ho il sospetto che l’arte sia una fregatura.
Ho il sospetto che l’arte sia un mezzo che ci è concesso per farci sentire artisti.
Ho il sospetto che l’arte rappresenti una mancanza: che serva ad accettare la vita incompleta che viviamo.
Ho il sospetto che il mercato abbia, da tanto tempo, ucciso l’arte, contaminandola irrimediabilmente.
Ho il sospetto che l’arte abbia a che fare con l’essere liberi. E liberi non siamo.
Sento che l’unica arte che mi rappresenta sia quella che si autodistrugge, quella non recuperabile, effimera, che sguiscia dalle mani sozze del suo valorizzatore.
Ho sospetto che arte sia ciò che non è arte.
Ho il sospetto che l’arte debba stare fuori dal mondo del lavoro.
Ho il sospetto che l’arte non debba avere nessun valore economico. Non dovrebbe neppure essere gratuita. L’arte si trova oltre questi banali rapporti commerciali.
Ho il sospetto che l’arte che compriamo dappertutto, nelle librerie, nei teatri, nei cinema e nelle mostre d’ogni tipo, contenga solo un messaggio subliminale di morte e di rassegnazione.
Tutta la storia dell’arte è storia di esclusione, tu si, tu no, tu no, tu no, tu no, tu si, di giudizio morale, estetico e politico. E’ storia che seleziona prodotti, fatta di sfruttamento e profittatori.
Per precauzione l’artista poi, è spesso considerato un poco folle. Non si sa mai.
Troppi sospetti, troppi indizi, non fanno una prova?
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Sospetti
Settembre 4th, 2019 — fuori buco
Scrivendo di mio padre
Marzo 15th, 2019 — fuori buco
Di mio padre so pochissimo, anzi so tutto, è sufficiente che mi guardi le mani e i piedi.
Mio padre sono io e anche un po’ mia madre.
Mio padre era un gran lavoratore, così ci diceva sempre nostra madre, gran lavoratrice a sua volta, come ci diceva sempre lei.
Mio padre faceva il carpentiere e costruiva armature che sembrava fosse un architetto, invece aveva visto il banco si e no una dozzina di volte; d’altronde mi sembra ovvio, non ce lo vedo proprio piccolino a stare seduto anche solo dieci minuti a fare stanghette e cornicette che le prenderebbe e te le tirerebbe sul naso le stanghette e le cornicette, figuriamoci a scrivere il suo nome, e riguardo il suo cognome, credo abbia saputo di averne uno solo quando si sposò.
Nonostante il cognome fosse semplice e lineare, lui sapeva solo il suo soprannome misterioso che a proposito di misteri, non vi svelo.
Mio padre era un gran lavoratore, ed era quasi analfabeta, che tu pensi come si possa vivere senza poter leggere un libro o i bugiardini dei medicinali, ma lui ci riuscì, visse senza letteratura, senza storia e senza geografia, mente semplice si direbbe, gli bastava sapere che suo fratello stava a Buenos Aires a fare non si sapeva cosa, ma che ci voleva l’aereo per andare al suo funerale. Non usò mai la penna, e l’unica matita che conosceva era quella per segnare il legno prima di segarlo, non comprò mai una rosa e non bevve acqua, solo vino, a volte aceto, o birra, Peroni.
Mio padre era un gran lavoratore con la passione delle carte – ma non del gioco – delle boccette e delle sigarette. Non era competitivo giocava per stare in compagnia, lontano da mia madre che lo voleva far lavorare anche a casa e gli diceva sempre di cambiarsi i pantaloni.
Giocava a tressette e con la stecca come fosse un universitario, tra una lezione e l’altra, e dava l’impressione conoscesse le carte che avevi in mano, e il tavolo verde del biliardo come fosse il suo orto, cosa sua, andava al bar con la zappa, la bolla e la tenaglia, come quando fai una cosa che ti senti al posto giusto, senza dubbio alcuno, come fossi nel flusso, nella lunghezza d’onda della briscola e della scopa. Col ramino, anche chiamato in casa scala quaranta, lo vedevo un po’ a disagio come se non parlasse proprio la sua lingua, troppe carte da tenere in mano, al quale si adeguava, ma si vedeva che preferiva i carrichi, gli strisci e le bussate.
Mio padre faceva scale, non sto parlando di “dieci fante regina e re”, anche quelle certo, ma di scale fatte di cemento. Quelle che faceva nel cantiere erano sorprendenti perchè non si riusciva a capire come potesse mio padre, uomo schivo che non esprimeva mai opinioni, a disegnare col martello e chiodi una struttura relativamente così complessa che doveva portare le persone in alto o in basso e che stava su da sola.
Per lui una scala erano tavole inchiodate che contenevano acqua cemento e sabbia con la betoniera miscelate, che dopo due giorni si sarebbero dovute disarmare, sembrava che a lui non interessasse la funzione della scala, non rientrava nei suoi interessi pensare a quel che stava facendo, lo faceva e basta. Visse così.
Ricordo che, quindicenne, mi portava con sé a togliere chiodi dalle tavole da ponte, quelle lunghe, e dalle mascelle, quelle piccole. Era un lavoro noioso per una mente come la sua, che non ci vedeva concretezza, una perdita di tempo. Mi faceva anche raddrizzare i chiodi per poterli riutilizzare.
Per me non era un brutto lavoro solo perchè sapevo sarebbe durato poco. E durò anche meno.
Lo sapevo, lo sentivo che lui non voleva io seguissi le sue orme, ma che invece mettessi il culo al caldo in una banca o alla meno peggio in posta o dove non sapeva lui nemmeno dove. Mi portava con sé perchè qualcosa come padre doveva pure fare oltre che portare soldi a casa dalla moglie ragioniera.
Per mio padre il mondo stava tutto dentro il suo cantiere che raggiungeva con il suo vespino, verde pisello, che mio padre non c’aveva neppure la patente, non si era mai posto il problema della patente, a lui bastava la sua vespa, che se ne faceva della macchina? A lui non interessava studiare chi dovesse passare per primo ad un incrocio, era un intuitivo, o studiare come funziona un motore, la candela la sapeva cambiare e questo a lui bastava.
Quand’ero piccolo pensavo che dentro quella sua vespetta ci stesse solo una candela, solo quella, che il motore fosse la candela e che l’unica manutenzione da fare fosse di pulirla, soffiarci sopra prima di partire e in caso estremo farsi aiutare da una colorata bestemmia detta a voce alta scelta tra le infinite bestemmie che conosceva, ma in calabrese.
Non vidi mai mio padre far miscela ad un distributore di benzina, probabilmente la sua vespetta andava con l’acqua che lui non beveva mai, chi lo sa.
Mio padre era un gran lavoratore (l’ho già detto?), ma come padre lasciava a desiderare anche se io figlio questo non l’ho mai pensato o sospettato, mi sembrava facesse tutto bene e sicuramente lo faceva, visto che non sono venuto su con traumi infantili da carenza affettiva, o almeno credo. Mio padre sfidava le leggi della moderna pedagogia, anche perchè tanto ci pensava sua moglie ragioniera ed educatrice a riempire gli spazi, le voragini che lui lasciava a casa per andare al bar a bere il caffè e stare seduto per ore dentro una nuvola di fumo che è chiaro dovesse morire di tumore ai polmoni, ma noi non ci pensavamo e tantomeno ci pensava lui diretto interessato alla questione. E, cosa ancor più grave, non ci pensava il monopolio tabacchi dello Stato tanto amico dei propri cittadini e paesani.
Quando entro adesso in un bar che non si può più fumare dentro, non riesco a vedere mio padre che se ne esce fuori ed interrompe la partita per farsi una sigaretta, avrebbe smesso di giocare a carte, sarebbe passato alle bocce per poter continuare a stare con la sigaretta in bocca.
Mio padre, che si chiamava Giuseppe non l’ho ancora detto, portava sempre alla cintura un porta martello di cuoio con dentro un martello, un porta chiodi sempre di cuoio con dentro chiodi, sempre pronto all’evenienza. Faceva la sua figura. Era proprio un bell’uomo ed io ho preso da lui tanto che anche io metto spesso un porta qualcosa alla cintura. Si direbbe fosse proprio un figo e lo sarebbe stato ancora di più se solo avesse avuto cura del suo corpo, mero strumento di produzione.
Tutte le sere, tornato a casa, prima di mettersi a tavola per la cena, scriveva sul calendario in sintesi la sua giornata lavorativa: un otto. Non era un voto, erano le ore lavorate. Capitava che su quel calendario scrivesse anche un dieci e anche un dieci e lode, e il sabato si accontentava di un quattro.
Ma di lui mi ricordo altre cose strane: il modo in cui si lavava i piedi per esempio, di come gli puzzavano. Di lui mi ricordo le crepe nella mani, colpa del cemento. Non erano tagli, erano crepe.
Mi ricordo la sensazione sgradevole che si provava nel toccargli il viso, aveva pelle che pungeva, il suo corpo era fatto della sostanza delle sue solette prima che ci mettessero il pavimento in marmo, dei suoi muri armati e disarmati, dei sacchi di cemento di cinquanta chili, non so come facesse mia madre a baciarlo perchè sono sicuro che anche loro qualche bacio se lo sono dato.
Mio padre era tutto d’un pezzo con un punto debole: la schiena.
Stesso punto debole che ho io, chissà perchè.
Soffriva regolarmente di sciatalgia e mia madre cercava di disinfiammare il fuoco che teneva tra le lombari e le sacrali facendoli coppette senza avere competenze specifiche di medicina tradizionale cinese. Sistemava sulla schiena di mio padre dei bicchieri rovesciati con dentro del cotone bagnato con l’alcool al quale dava fuoco, combattere il fuoco con il fuoco, mi sembra giusto. Dentro questi bicchieri rovesciati il calore succhiava aspirava quel che c’era da aspirare, e la pelle inspiegabilmente si gonfiava fino a riempire i contenitori. Non era cosa bella da vedere. E poi quel fuoco che lasciava il segno per giorni sopra il corpo, già provato dal sole e dalla polvere della calce ventilata.
Io non osavo neppure chiedere perchè facessero quel che facevano, d’altronde non volevo fare il medico da grande, ma l’ingegniere, e poi perchè sapevo che non lo sapevano neanche loro, quando si aveva mal di schiena si faceva così senza andare a scomodare fisioterapisti, agopuntori e chiropratici, al massimo andavano da mio zio a farsi togliere il malocchio.
Nonostante tutte le precauzioni non prese, dovette essere operato. Ernie del disco ovunque, non c’era cura che servisse, quando probabilmente sarebbe bastato starsene un po di tempo a casa e non lavorare, ma questo non era concepito.
Mio padre andava dal medico e in ospedale come fosse naturale, se ci sono i dottori ci sarà pur un motivo. Non è che si fidasse molto dei camici bianchi e del loro modo pasticciato di scrivere le ricette, ma tant’è, di ospedali e di dottori qualcheduno l’ha visto e conosciuto. Mi chiedo cosa facesse in ospedale tutto il tempo senza poter leggere, fumare e giocare a carte perchè anche la televisione non lo interessava proprio per non parlare dei programmi radio. Lui cantava canzoni inesistenti, ma credo che in ospedale non lo potesse fare, passava il tempo a leccarsi le ferite.
Poco tempo dopo la morte di mio padre scrissi questo:
“Oggi mi sono messo le scarpe di mio padre.
Sono un tipo di scarpe semplici e leggere ma classiche, nere, con un intreccio fitto, due centimetri di tacco, la suola di cuoio, quel tipo di scarpe che quando cammini in casa fanno un suono secco e militare ma anche deciso e musicale.
Fino ad oggi avevo sempre calzato scarpe silenziose, gommose, dall’aspetto anche non consueto, ma mansueto, come il mio carattere direi. Scarpe che di rumore fanno “sguisch sguisch” mentre quelle di mio padre fanno “toc toc”.
E sono “made in Italy” che suona strano nella casa di un antinazionalista, ma che mi trasmettono lo stesso una sensazione di qualità, di cose fatte bene, scusa ma l’ho pensato veramente.
Ho immaginato come le calzava lui, mio padre, che ora non c´è piú, la sua andatura. Ho cercato una relazione tra il tipo di scarpa e la sua indole, ho cercato di pensare quello che poteva pensare lui andando in giro per il paese. Non che fosse un gran camminatore e probabilmente queste scarpe le metteva solo la domenica per andare al bar o per un
matrimonio. Non so se ho trovato quello che cercavo, ma mi sono visto un altro, piú serio, meno incerto, piú deciso, fors’anche piú attraente.
Mi sarebbe piaciuto avesse lui messo una volta sola le mie di scarpe, e se non le scarpe, almeno la mia maglietta preferita, quella dei Minor threat.”
Le scarpe di mio padre, quelle scarpe, non le ho più, si sono aperte sul davanti e le ho gettate.
Certe volte bisogna darci un taglio col passato e con i simboli, come le scale di mio padre che erano cemento e sabbia mescolati assieme, quelle scarpe, alla fin fine, altro non erano che gomma e cuoio tanuti assieme da mastice e chiodini, niente più.
La disperazione nei muri a secco
Febbraio 17th, 2015 — fuori buco
I muri a secco, le pietre, i massi, i sassi, anche le scaglie, sono tristi, anzi, disperati. Considerazione zero.
Vivono oramai fuori dal tempo, anacronistici, condannati alla solitudine e allo scivolamento a valle, a franare.
Hanno pance gonfie, denti cariati, postura pregiudicata.
In bilico precario perdono d’improvviso l’equilibrio, precipitando a terra, una terra dura, bassa, diserbata.
Quando va bene.
Solitamente cadono di notte.
Quando è nuvoloso e minaccia pioggia.
Un riflesso condizionato, una caduta preventiva.
Nessuno ne ha mai visto cadere uno, si può solo sentire il rumore sordo del tonfo, se state in ascolto, voi che vivete sicuri nella vostre tiepide case.
Il muro a secco viene giù tutto d’un colpo, tutto d’un pezzo, che se non fai a tempo ci lasci la mano sotto.
Il paesaggio ligure è segnato da questa drammaticità, da questa lotta per stare in piedi, nell’indifferenza.
L’aria è pregna di questa lotta e di questa battaglia persa.
Insieme ai muri cadono generazioni, cade una comunità, una società, cade la Storia.
Quando toccano il suolo esplodono, diffondendo nell’aria l’odore del sudore e dell’energie trattenute per anni, decenni e anche secoli.
Certo, il cemento è il nemico, ma il primo vero nemico suo è la rabbia dell’uomo frustrato, che non si assume le proprie responsabilità.
I muri, tutti i muri, hanno una pessima reputazione. I muri van distrutti, son d’accordo. È giusto che cadano. È giusto così.
Fanno paura i muri che non li butti giù neanche con le rivoluzioni.
Invece questi muri, a secco, sono fragili, fanno pena, son da compatire.
Non sono come gli altri muri, questi, ti lasciano passare, sono pieni di spifferi, permettono alle radici di trovare spazio, lasciano che l’acqua ci scorra dentro e non resistono al passaggio del fuoco e del cinghiale.
Il muro a secco porge l’altra guancia.
Un altro nemico del muro a secco è il diserbo.
Ma non è solo nemico suo.
Il diserbo fa terra bruciata, lascia il muro nudo, sterilizzato, anche le pietre perdono anima e si sgretolano. Anche l’amica edera manca, muore.
Se guardi i muri a secco prendendoti il tuo tempo, vedrai che son tutti diversi, son fatti di mille umori, le pietre hanno infinite facce, puoi vedere le rughe e la smorfia della fatica.
Se affini la sensibilità riconosci la mano, lo stile, e capisci pure se chi ha fatto il muro, quel giorno, era incazzato o aveva mal di schiena.
Puoi sentire l’eco dei porchi dii urlati nella valle.
Una volta quando cadeva un muro era una benedizione, la sua caduta portava lavoro di ricostruzione, adesso se il muro cade viene maledetto, e se cade sopra una strada asfaltata viene una ruspa e se lo porta via.
16° proverbio anarco/primitivista
Maggio 23rd, 2014 — fuori buco, per buco
“Quando il saggio indica l’aereo, lo stolto guarda la scia chimica.”