Un desiderio strano a volte mi balena nella testa:
mi piacerebbe alzarmi una mattina ed essere felice.
Svegliarmi di buon umore, fare una colazione abbondante e poi andare in giro contento di esserci, gentile con tutti.
“Buongiorno signora Teresa, dormito bene questa notte?”.
Tutti si accorgono del mio stato d’animo perchè riesco a trovare battutine simpatiche per ognuno, sorridere alla cassiera della Coop, fare un salutino al bambino nella carrozzina e anche una smorfia dispettosa, colloquiare serenamente con i clienti delle Poste in attesa del mio turno (P056), fare conversazione con disinvoltura, avere la battuta sempre pronta, la parola giusta al momento giusto, essere insomma un tipo non solo più socievole, ma quasi ebete.
Mi piacerebbe dare sempre con naturalezza i bacetti sulle guance quando incontro qualcuno che conosco e dirgli “Va tutto benissimo, e tu?”, ma non perchè fa pensiero positivo, ma proprio perchè lo penso davvero.
Dire prontamente “Saaalute!” ad uno sconosciuto che starnuta per la strada e, dopo che lui risponde sicuramente “Salute che se ne va!”, io prontissimo con “Speriamo di no”.
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beato beota
Novembre 5th, 2011 — fuori buco
decreto “suicidio”
Ottobre 19th, 2011 — fuori buco
Proposta di decreto legge:
Chi non lavora da più di sei mesi è obbligato a suicidarsi.
ma il metodo fukuoka, funziona o non funziona?
Agosto 5th, 2011 — fuori buco
Dopo una ventina di anni di letture, esperimenti, corsi, errori, gioie e dolori, ho finalmente capito il metodo Fukuoka.
Una comprensione profonda, quando dici “Ahhh!”.
Una comprensione che spero definitiva ma non è detto.
Credevo di avere già capito tutto tempo fa, mi illudevo di avere capito già da subito dopo aver letto “La rivoluzione del filo di paglia”, ma si trattavano solamente di intuizioni, speranze nelle quali confidavo, segnali ai quali mi aggrappavo.
Invece adesso, zac!, ci sono veramente!
Non si tratta di agricoltura, non si tratta di produzione, non si tratta di coltivare, non si tratta di fare qualcosa o di fare qualcos’altro.
Non c’è niente che deve funzionare, nessun parassita da combattere, nessuna tecnica da imparare, si tratta solo di una strada da percorrere, la strada del lasciar fare.
Sembra facile da capire ma non lo è.
pugno chiuso
Febbraio 16th, 2011 — fuori buco
Sabato scorso è morto un mio zio, uno degli ultimi testimoni di quello che è stata l’esperienza dei campi di concentramento nazisti in giro per l’Europa.
Mio zio, l’8 Settembre 1943, si trovava con l’esercito italiano sbandato in Grecia.
Non accetta di entrare nelle fila fasciste e neanche nella resistenza greca, ma si fida dei tedeschi e di alcuni ufficiali italiani che gli promettono di riportarlo in Italia.
Lo caricano su un carro assieme ad altre centinaia di soldati e lo portano, non a casa, ma a lavorare per la Germania nazional-socialista, campo di concentramento e campo di lavoro.
Una storia, quella dei soldati italiani prigionieri nei campi di lavoro, che è poco conosciuta ma che ha coinvolto diverse decina di migliaia di ragazzi, sprovveduti, sfruttati e ammazzati.
Mio zio, sopravvissuto a tutto, dopo tre anni, torna a casa, in Calabria, con in corpo un sentimento di odio verso i tedeschi e verso i fascisti.
Era diventato antifascista e comunista per reazione, inizia a votare PCI.
Vivrà facendo il muratore, sofferenza che si somma a sofferenza.
Si sentiva un proletario anche se questa parola non l’ha mai usata.
Non conosceva Marx e neanche Bakunin, ma era comunista.
Non conosceva la storia, se non la sua.
Era comunista di riflesso, senza riflettere.
Un comunista d’istinto come lo erano tantissimi comunisti.
Mancava di consapevolezza ma era colmo di rabbia e confusione.
Ieri sono stato al suo funerale, tanti parenti calabresi, entità alienate, gli stessi ai quali mio zio ha sempre cercato di raccontare la sua terribile esperienza, ma che, probabilmente, ne avevano già abbastanza del proprio quotidiano miserevole per ascoltarlo seriamente.
Del fatto che fosse stato comunista non credo se lo ricordasse nessuno.
Io però me lo ricordavo, e nel momento in cui la bara è stata issata e lentamente sistemata dentro al loculo, ho deciso che lo dovevo salutare in una maniera adeguata, ma che forse neppure lui si sarebbe aspettato: alzare il braccio e chiudere il pugno.