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9° proverbio anarco/primitivista

“Ambasciator non porta pena, giudice non porta condanna, medico non porta diagnosi negativa, carabiniere non porta manganellata, insegnante non porta brutti voti, coltivator di olive non porta veleni, il lavoro non porta morte.”

Piango

piango di gioia, piango di dolore. sono triste, euforico, grido alla vita. angosce, solitudine al mio fianco, so che tutto passa e che basta guardare il cielo che la prospettiva cambi. non dò retta ai brutti pensieri mattutini, appena metto i piedi sulla terra tutto cambia. sono contento di essere qui, qualcosa sta succedendo, sempre, nulla è uguale, sono contento di conoscere nuove persone, riconosco chi mi è affine, chi soffre dei miei stessi malesseri e gioisce per gli stessi motivi miei. piango perchè le lacrime sono belle, perchè quando piangiamo siamo brutti da far ridere.

Non rinchiudetemi

Non rinchiudetemi in una categoria.
Se ti dico che sono un danzatore butoh, tu automaticamente mi rinchiudi in uno schema mentale, anche se di butoh non sai niente.
Se ti dico che faccio il clown, ancora peggio perchè il linguaggio del clown è uno stereotipo granitico.
Se si parla di espressione corporea, l’associazione mentale più diffusa è quella con il bisogno corporeo per eccellenza: fare la cacca.
Anche solo parlare di danza genera sospetti, specie in ambito maschile.
Forse allora l’unica cosa che posso fare è cercare di non farmi capire, fare in modo che quello che faccio o propongo non venga compreso. Forse è solo dall’incomprensione che può nascere una comunicazione non preconcetta.

Preso bene

Da quando ho scoperto (e questo avvenne mooolti anni fa) che il mondo degli adulti era malato, ho iniziato a cercare di andare oltre, certo che restare in questa dimensione mentale fosse a sua volta malato.
Ho sempre sentito una spinta interiore che mi portava a guardare sotto, di fianco, dietro, altrove, di provare a testare altri comportamenti, di non credere a quello che mi si diceva, a sbagliare, a non fare quello che facevano tutti, a non fidarmi, già da piccolo, anche della mamma e del papà.
È per questo che in un momento di sofferenza e confusione, decido di fare quello che, nell’opinione comune, non conviene fare, e cioè starci con la sofferenza, guardarla in faccia, sfidarla, senza scappare, finchè resisto.
Ciò che è difficile è saper aspettare, perché, sono sicuro, dopo un po’, lasciato esprimere, il malessere si stanca e se ne va.